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Cervello – Perché imparare è difficile

Utilizzando interfacce neurali, gli scienziati stanno iniziando a capire perché imparare è difficile. La tanto decantata plasticità neurale è in realtà molto più limitata di quanto si pensasse: di fronte al nuovo, il cervello fa fatica ad abbandonare i vecchi schemi che hanno funzionato bene in passato, e segue una procedura piuttosto inefficiente per trovarne di nuovi

Il segno distintivo dell’intelligenza è la capacità di apprendere. Come dimostrano decenni di ricerche, i nostri cervelli mostrano un alto grado di “plasticità”, nel senso che i neuroni possono ricablare le loro connessioni in risposta a nuovi stimoli.

Ma alcuni ricercatori della Carnegie Mellon University e dell’Università di Pittsburgh hanno recentemente scoperto vincoli sorprendenti sulle nostre capacità di apprendimento. Il cervello può essere altamente flessibile e adattativo in generale, ma – almeno in un arco di tempo breve – impara riciclando in modo inefficiente trucchi dal suo repertorio neurale invece che ricominciando da capo.

“Ogni volta che gioco a squash, sembro un giocatore di tennis”, ha raccontato Byron Yu, ingegnere biomedico e neuroscienziato della Carnegie Mellon e uno dei leader della ricerca. Yu ha giocato a tennis per molti anni. Il suo problema con lo squash è che si gioca con una racchetta più corta e con tiri più veloci e più violenti, con un diverso tipo di accompagnamento del gesto rispetto a quello a cui si è abituati sul campo da tennis. Eppure in una partita di squash, finisce per adottare lo stile d’uso della racchetta che gli ha inculcato la lunga esperienza con il tennis . Il cervello non abbandona facilmente ciò che sa già.

Ora, mentre osservavano l’attività cerebrale durante l’apprendimento, Yu e i suoi colleghi hanno visto prove di una simile mancanza di plasticità a livello neurale. Questa scoperta e la ricerca che l’ha determinata possono aiutare a spiegare perché alcune cose sono più difficili da imparare rispetto ad altre.

Diversi anni fa, Yu, Aaron Batista dell’Università di Pittsburgh e altri membri dei loro laboratori iniziarono a utilizzare le interfacce neurali, o interfacce cervello-computer (BCI), come strumenti di scoperta nel campo delle neuroscienze. Questi dispositivi hanno un chip, grosso modo grande come un’unghia, che può tracciare contemporaneamente l’attività elettrica di 100 neuroni nella corteccia motoria del cervello, l’area che controlla il movimento. Monitorando le sequenze di potenziali d’azione che attraversano nel tempo i singoli neuroni, un BCI può calcolare un “tasso di scarica” per caratterizzare il comportamento di ciascun neurone durante l’esecuzione di un compito.

“Si può ben immaginare che sfida possa essere scavare in tutti questi dati per vedere che cosa sta facendo il cervello”, ha detto Yu. (NdR: Yu riceve finanziamenti dalla Fondazione Simons, che pubblica “Quanta”.) “I nostri occhi non sono addestrati a cogliere processi così sottili”. Ma può farlo un’analisi statistica avanzata integrata nel chip, e gli schemi possono essere utilizzati per identificare l’attività neurale associata all’intenzione di compiere movimenti specifici del soggetto sottoposto al test. Il sistema può distinguere, per esempio, un soggetto che desidera estendere il braccio verso sinistra o verso destra, su o giù.

I ricercatori possono quindi usare l’output di un BCI per tradurre l’attività neurale per specifici movimenti in controlli direzionali di un cursore su un monitor. Seguendo un approccio per prove ed errori, persone o animali che usano l’interfaccia imparano, per esempio, che se immaginano che il loro braccio si sposti a sinistra possono spostare un cursore nella stessa direzione.

Quando Yu, Batista e colleghi hanno monitorato la corteccia motoria di una scimmia mentre eseguiva ripetutamente semplici azioni di ondeggiamento del braccio, hanno scoperto che i neuroni non si attivavano in modo indipendente. Al contrario, il comportamento dei 100 neuroni misurati avrebbe potuto essere descritto statisticamente in termini di circa 10 neuroni, che erano variamente eccitati o inibiti dagli altri. Nell’analisi dei ricercatori, questo risultato si presentava come un insieme di punti su un grafico che riempivano solo un piccolo volume di uno spazio dati 100-dimensionale.

“Abbiamo chiamato quel volume varietà intrinseca (intrinsic manifold) perché pensiamo che sia qualcosa di veramente connaturato al cervello”, ha detto Steven Chase, professore di ingegneria biomedica alla Carnegie Mellon. “La dimensionalità di questo spazio è altamente predittiva di ciò che questi neuroni possono fare”.

Nel 2014, i ricercatori hanno osservato che i soggetti sottoposti a test potevano apprendere nuovi compiti più facilmente se coinvolgevano modelli di attività neurale all’interno della varietà intrinseca invece che al di fuori di essa. Questo risultato ha senso, secondo Yu, perché i compiti che rientrano nella varietà intrinseca fanno richieste al cervello che sono coerenti con la struttura neurale sottostante. Dopo aver completato questo studio, il gruppo ha rivolto la sua attenzione alla questine di come l’attività neurale cambia durante l’apprendimento, come descritto su “Nature Neuroscience”.

Per scoprirlo, i ricercatori prima hanno lasciato che i primati dotati di BCI diventassero esperti nel muovere il cursore a sinistra e a destra. In seguito, hanno cambiato i requisiti di attività neurale per spostare il cursore e hanno aspettato di vedere quali nuovi modelli di attività neurale, corrispondenti a nuovi punti nella varietà intrinseca, avrebbero usato gli animali   per rispondere a quei requisiti.

I ricercatori si aspettavano di vedere le prove di una strategia di apprendimento chiamata “riallineamento”, per cui l’animale avrebbe dovuto iniziare a utilizzare qualsiasi nuovo modello di attività avrebbe funzionato con il massimo della naturalezza. “Il riallineamento è la strategia migliore che l’animale possa usare, tenendo conto dei limiti nella varietà intrinseca”, ha detto Matthew Golub, che ha collaborato al progetto come postdoc con Yu e Chase ma ora lavora alla Stanford University. In alternativa, il cervello delle scimmie potrebbe aver imparato con un processo di “riscalamento”, in cui i neuroni coinvolti nel compito di apprendimento originale aumentavano o diminuivano i loro potenziali d’azione fino a quando non incappavano in un modello che funzionasse.

Ma, con sorpresa dei ricercatori, non si è verificato né un riallineamento né un riscalamento. Invece, hanno osservato un approccio altamente inefficiente chiamato “riassociazione”. I soggetti animali hanno appreso i nuovi compiti semplicemente ripetendo i modelli di attività neurali originali e scambiandone i compiti. Gli schemi di attività che in precedenza avevano spostato il cursore verso sinistra ora lo spostavano verso destra, e viceversa. “Era una sorta di riciclaggio di ciò che facevano di solito”, spiega Golub, ma in circostanze nuove.

Perché il cervello dovrebbe usare qualcosa di diverso dalla migliore strategia di apprendimento? Le scoperte del gruppo suggeriscono che, proprio come l’architettura neurale limita l’attività alla varietà intrinseca, qualche ulteriore vincolo limita il modo in cui i neuroni riorganizzano la loro attività durante gli esperimenti. Batista suggerisce che i cambiamenti nelle connessioni sinaptiche tra i neuroni che sarebbero necessari per il riallineamento potrebbero essere troppo difficili da fare rapidamente. “La plasticità a breve termine dev’essere più limitata di quanto pensassimo”, ha affermato. “L’apprendimento implica dimenticare. Il cervello potrebbe essere riluttante a lasciare andare cose che sa già come fare”.

Chase ha paragonato la corteccia motoria a un vecchio centralino telefonico, con connessioni neurali che svolgono la funzione di cavi che collegano gli input provenienti da altre aree corticali agli outpout nel cervelletto. Durante i loro esperimenti, ha detto, il cervello “riorganizza tutti i cavi”, anche se non è ancora chiaro che cosa ciò significhi esattamente…”

Per continuare a leggere la news originale:

Fonte: “Le vecchie abitudini del cervello che impara”, Le Scienze

Tratto dahttp://www.lescienze.it/news/2018/04/04/news/interfacce_neurali_abitudini_cervello_apprendimento-3927759/